Almanacco digitale

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L’Italia all’epoca della sua riproducibilità digitale

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In quel limbo sospeso tra la supponenza e l’indifferenza che solitamente caratterizza l’estate italiana, è stato approvato dal Consiglio dei Ministri  il DECRETO-LEGGE 31 maggio 2014, n. 83: “Disposizioni urgenti per la tutela del patrimonio culturale, lo sviluppo della cultura e il rilancio del turismo”. In un paese come l’Italia, un decreto di questo genere dovrebbe essere per settimane al centro del dibattito politico e sociale, considerando l’importanza e la consistenza del nostro patrimonio culturale. Ma non è così, purtroppo, e al momento si sono notati solo pochi interventi articolati sul testo del decreto, alcuni centrati su aspetti almeno apparentemente positivi quali la ratifica della detraibilità fiscale delle donazioni e degli investimenti in ambito culturale, altri più critici, soprattutto rispetto a temi controversi quali le risposte alle istanze che provengono dalle grandi emergenze culturali italiane (le aree archeologiche, il cinema, il teatro…), che molti giudicano insufficienti o quanto meno non ispirate a una visione organica o prospettica.

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Al di là del merito dei vari aspetti del decreto, per chi si occupa di “scritture digitali” è importante evidenziare un elemento particolarmente interessante del testo approvato. Si tratta dei riferimenti espliciti alla riproduzione fotografica dei beni culturali, ovvero dell’introduzione della “parziale liberalizzazione del regime di autorizzazione della riproduzione e della divulgazione delle immagini di beni culturali per finalità senza scopi di lucro quali studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero, espressione creativa e promozione della conoscenza del patrimonio culturale”. Più precisamente, si affronta questa tematica nel Titolo III, articolo 12 del Decreto, dove al comma 3/B si dichiara:

“Sono in ogni caso libere, al fine dell’esecuzione dei dovuti controlli, le seguenti attività, purché attuate senza scopo di lucro, neanche indiretto, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale:
1) la riproduzione di beni culturali attuata con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, ne’ l’esposizione dello stesso a sorgenti luminose, ne’ l’uso di stativi o treppiedi;
2) la divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite, in modo da non poter essere ulteriormente riprodotte dall’utente se non, eventualmente, a bassa risoluzione digitale”.

In realtà non si tratta di un provvedimento particolarmente innovativo, ma solo della (tardiva) ratifica di uno scenario che a livello europeo sta prendendo forma da diversi anni, a partire dagli intenti strategici definiti nella cosiddetta Dichiarazione di Berlino (2003), dove si esplicita che è necessario “encouraging the holders of cultural heritage to support open access by providing their resources on the Internet”, fino all’adozione – nei principali paesi – di specifiche norme orientate all’accesso ai beni e al permesso di riproduzione, di solito con il solo vincolo del rispetto del principio della tutela, solitamente espresso dal divieto di utilizzare flash o altri dispositivi di illuminazione e dall’ovvio divieto di “toccare” le opere, ma non necessariamente dal divieto di utilizzo di supporti statici (come accade ad esempio in Francia, dove è sufficiente pagare un biglietto di ingresso in più per poter piazzare un cavalletto nelle sale dei musei e ottenere così fotografie migliori). In ogni caso, è importante che anche in Italia sia stato finalmente introdotto il concetto di riproducibilità digitale del patrimonio storico-artistico: si aprono opportunità interessanti soprattutto per chi ha bisogno di utilizzare immagini a scopo didattico, ma anche per i creativi e per tutti coloro che avranno voglia di “raccontare” per immagini la nostra storia, contribuendo alla valorizzazione della nostra eredità.

Quello che colpisce negativamente, piuttosto, è la contraddizione che il Decreto esprime nell’articolazione dei due punti del comma specifico, su cui peraltro si sono concentrate al momento le varie critiche già pubblicate (si veda a titolo di esempio questo contributo). Il punto 1, infatti, esprime sostanzialmente una visione aperta e più in generale attenta all’evoluzione della cultura digitale (sia pure con qualche limitazione di troppo). Il punto 2, al contrario, sembra voler ridimensionare quanto dichiarato in precedenza, sottolineando che è importante divulgare “con qualsiasi mezzo” le immagini, ma introducendo due vincoli difficilmente spiegabili se non come residuo di garanzia nei confronti dell’editoria tradizionale o di altri titolari di privilegi acquisiti in questo ambito. Di fatto, il divieto di ulteriore riproduzione da parte dell’utente e il concetto di bassa risoluzione digitale sono affermazioni astratte, che non tengono conto della realtà effettiva; sono inoltre contraddittorie e impraticabili. Che cosa implica ad esempio la non riproducibilità ulteriore? Che se si pubblica una fotografia scattata in un museo su un Social Network questa non può essere ricondivisa da altri? Se così fosse l’affermazione sarebbe in aperta contraddizione con quanto dichiarato dallo stesso comma… e in ogni caso chi può verificare (e come? E poi perché dovrebbe?) che questo non accada? E poi è così che funzionano le reti sociali, basterebbe prenderne atto: la scrittura digitale (ambito in cui rientrano i racconti per immagini) è strettamente integrata con la ri-scrittura, la rielaborazione, la viralità. Inoltre, non è chiaro cosa significhi bassa risoluzione digitale. Le tecnologie si evolvono rapidamente, un Tablet di ultima generazione arriva agevolmente a risoluzioni di 1920×1080 pixel, un qualsiasi smartphone scatta a 5-6 megapixel. Sono parametri che rientrano in quanto affermato dal Decreto? E che cosa significa l’avverbio eventualmente? Che si può pubblicare un eBook su Giotto utilizzando come illustrazioni immagini realizzate autonomamente e reimpaginate a 1080 pixel di risoluzione orizzontale?

In sostanza, come accade spesso in Italia, è stata introdotta una norma che non esplicita in modo del tutto chiaro cosa si può fare, ma lascia un margine di discrezionalità nella sua applicazione. Se sarà interpretata in modo elastico, aperto, realmente “liberale”, allora potrà innescare un processo virtuoso, aprire spazi finora impraticabili alla didattica e alla creatività. Se invece sarà interpretata in modo restrittivo allora ci ritroveremo ad annaspare nella solita palude: anche se questa volta potremo fotografarla e condividerla su Instagram…

[nelle immagini: Parigi, Museo del Louvre, 2010]

Parole sulla neve

writing on snow

Non è un vero e proprio esperimento di scrittura digitale. Anzi, a prima vista sembra qualcosa di assolutamente diverso. Shelley Jackson, infatti, scrive soltanto sulla neve. Scrive parole che idealmente compongono singoli stati d’animo, o elementi di conversazioni da ricostruire camminando o immaginando. In ogni caso, parole strettamente legate alla materia di cui sono fatte: la più effimera delle materie, destinata a sciogliersi in pochi giorni o poche ore cancellando quelle stesse parole che per un attimo qualcuno ha inciso sulla sua superficie bianca e fredda (ma non sempre così bianca, e spesso riscaldata proprio dai segni che vi si sovrappongono). Ma è proprio a questo punto che questa sorta di land art in sedicesimo entra in contatto con la scrittura digitale. Perché Shelley Jackson non si limita a scrivere sulla neve, ma fotografa (digitalmente) le sue parole e le condivide immediatamente su Instagram, più esattamente sul profilo: snowshelleyjackson. Le parole concrete ma effimere scritte sulla neve diventano così, grazie all’effimera consistenza della fotografia digitale, un racconto continuo che col tempo potrebbe diventare qualsiasi altra cosa.

writing on snow

Secondo Mercy Pilkington, un progetto come quello della Jackson potrebbe addirittura rappresentare un modello integrativo per l’editoria digitale. La domanda a cui bisogna cercare di dare una risposta è: “even better, can a series of 200 Instagram pictures be considered an ebook, if read altogether?” E non si tratta di una domanda retorica. La Jackson non scrive sulla neve parole in libertà, ma frammenti di una vera e propria storia, che si legge a rovescio, ovvero comincia con la prima instantanea pubblicata su Instagram e prosegue di conseguenza. Non siamo poi così lontani dagli esperimenti narrativi basati su twitter, come narrativa in 140 caratteri o twitteratura. A riprova del fatto che i mondi digitali sono un ponte tra il reale e l’immaginario. In questo caso, un ponte ricoperto di neve.

140 caratteri di intensità

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Ci sono fenomeni che prendono forma in modo così rapido che spesso non riusciamo a definirne né le potenzialità né i limiti senza invocare più tempo per formulare un giudizio. Ce ne sono altri, al contrario, che fanno della rapidità una delle caratteristiche del loro stesso successo, quasi avessero letto Calvino, o almeno una parte delle “Lezioni Americane”, a tal punto che per poter esprimere una valutazione siamo quasi costretti a essere più veloci delle loro metamorfosi. Il problema è: un fenomeno come Twitter, a quale dei due scenari appartiene? A entrambi, verrebbe da dire, o forse a nessuno dei due. Sta di fatto che Twitter non solo si è diffuso in modo estremamente rapido (la prima versione è del 2006, ma già da 3 anni la giuria “popolare” internazionale messa insieme da Jane Hart per individuare gli strumenti più utili per chi si occupa di e-knowledge lo colloca al primo posto della lista), ma ha anche aperto e sta ancora aprendo scenari e orizzonti del tutto nuovi in ambiti – dal giornalismo al marketing, dalla religione alla politica – che meriterebbero riflessioni approfondite, meditate con la dovuta “lentezza”. La pubblicistica su Twitter e i suoi molteplici utilizzi è ormai enorme: sono stati scritti articoli e libri su quasi tutte le possibili applicazioni del celebre microblog, ma è interessante notare come uno degli ambiti più esplorati da chi studia la genesi e l’effetto dei tweets sia la letteratura. Twitter è un enorme e straordinario laboratorio letterario, fin da quando ne hanno parlato in questi termini voci contrastanti come quelle di Bruce Sterling o Rick Moody. Non è poi così difficile capire il perché di questa particolare connotazione: qualunque sia l’intenzione o la motivazione di un tweet, in fondo si tratta di una forma di storytelling che si sta incamminando sulle praterie della società della conoscenza. Ma per saperne di più bisogna andare oltre questo post. Segnalo quindi volentieri un eBook interamente dedicato a questo ragionamento:

Lombardo, Sonia (2013), Narrativa in 140 caratteri, genesi della Twitteratura. StoriaContinua.
Disponibile su: Smashwords Edition e UltimaBooks.

Il libro prende in esame l’evoluzione e l’affermazione dei generi letterari basati sulle “regole” di Twitter “dalle Lezioni Americane al Twitter Fiction Festival”, delineando “tutte le tappe che hanno portato all’organizzazione dell’evento che ha consacrato la cosiddetta TwitterLit, partendo da un’analisi della tradizione legata alla narrativa breve, fino alla scelta dei primi autori di rielaborare le loro opere, spezzettandole in porzioni da 140 caratteri, piuttosto che inviarle alla classica casa editrice”. Si parte dal presupposto che “ormai tutti conoscono e usano Twitter, ma comporre una trama che sia avvincente attraverso brevi battute è davvero tutta un’altra storia. Bisogna saper sfruttare a pieno gli strumenti che la piattaforma mette a disposizione, soprattutto avere piena comprensione delle dinamiche che tali strumenti mettono in moto e come queste influiscono sulla stesura di un racconto. Non si tratta soltanto di spezzettare una storia in frasi da 140 caratteri, c’è molto di più dietro il successo di autori come Elliot Holt, Teju Cole o Matt Stewart”. Contano, in particolare, “le 3 caratteristiche fondamentali della Twitteratura”, che il libro aiuta a identificare e decifrare. Per scoprire una forma ancora fresca e originale di scrittura e lettura digitale.
[a cura di Mario Rotta, @mrxibis su Twitter]

3 cose che ogni editore digitale dovrebbe sapere

Leggere le riflessioni di Mike Shatzkin sul futuro dell’editoria digitale è sempre un’esperienza illuminante. Shatzkin non cede mai alla scorciatoia della futurologia ed evita attentamente di delineare scenari astratti. Al contrario, esamina i fatti e ne riassume le specificità essenziali, suggerendo vere e proprie ipotesi di lavoro concrete e praticabili: è quello che accade anche in un suo recente articolo dal titolo fin troppo esplicito di The three forces that are shaping 21st century book publishing: scale, verticalization, and atomization. Che cosa intende suggerire Shatzkin? Si riferisce a tre “categorie” fondamentali per chi volesse, oggi, investire in attività di editoria digitale. La prima è la scala. Qualcosa di più di ciò che fino a un po’ di tempo fa chiamavamo “massa critica”: significa che gli editori digitali devono puntare sull’ampliamento costante della produzione digitale, superando il timore di non essere in grado di gestire il sovraccarico che essa potrebbe comportare. La dimensione conta, sostiene Shatzkin, e rappresenta anzi un vantaggio competitivo. Questo implica che solo i grandi editori potranno permettersi di essere protagonisti in questo tipo di mercato? No, perché entra in gioco il secondo fattore di successo, la verticalizzazione: che consiste nella capacità e nella possibilità (legata alla granularità stessa della rete) di rispondere in modo mirato alle istanze, ai desideri e alle preferenze dei lettori, indirizzando la produzione di contenuti digitali verso coloro che sono in grado di recepirla. A pensarci bene, è un rovesciamento del paradigma tradizionale: l’editore non seleziona più ex ante la produzione, scegliendo cosa pubblicare e quando in base al profilo del pubblico che ha definito come target; punta piuttosto su una produzione allargata intervenendo ex post sulla segmentazione della distribuzione, legata all’ascolto della voce stessa dei lettori. Questo fenomeno implica la condensazione di un terzo fattore, la cosiddetta atomizzazione: ciascun soggetto, in questo scenario, è una “componente critica”, poiché ognuno può, non soltanto in linea teorica ma anche in pratica, elaborare contenuti e indirzzarli verso specifici destinatari in qualunque momento, ovunque operi e senza bisogno di attuare grandi investimenti organizzativi o di capitali. Sapevamo già queste cose, o quanto meno ne avevamo sentore. Ma Shatzkin le riassume in modo organico, e lo scenario che ne deriva assume subito un significato più ampio: scala, verticalizzazione e atomizzazione non sono forse fattori da considerare in modo integrato in gran parte delle attività che si possono svolgere in rete? Non valgono forse per l’e-commerce in generale, per la pianificazione di una risposta concreta ai bisogni formativi nell’e-learning, nella gestione delle comunità virtuali o per la stessa azione politica basata sull’attivazione di reti sociali? E se è così, perché molti fingono ancora di non accorgersene e continuano a confondere il “prodotto” digitale con quello analogico, pretendendo di decidere aprioristicamente cosa distribuire e mettendo a punto strategie di marketing orientate a indirizzare le preferenze degli utenti anziché ascoltarne i desideri? Forse è solo questione di tempo.

Quando l’essenziale è visibile agli occhi

In effetti a volte è così: non ci sono soltanto le ragioni del cuore, c’è anche ciò che si riesce a percepire guardandoci intorno, nel mondo che ci circonda, pieno di forme, colori, superfici che troppo spesso restano nascoste sotto il velo dello schermo di un computer o di un tablet. Il problema è capire che cosa si può fare per recuperare, attraverso le tecnologie digitali, un rapporto proficuo, creativo, concreto, con l’ambiente reale e con tutte le possibilità espressive che può suggerirci: ed è proprio quello che sta provando a fare Curious Hat, una società californiana che “progetta e crea applicazioni mobili innovative ed educative per iPhone, iPad e Android per bambini curiosi ed esploratori di età compresa fra i 3 e i 99 anni.” Curious Hat sta lavorando a un esperimento di scrittura digitale particolarmente interessante: si chiama Eye Paint, ed è una serie di App che “offre ai bambini l’opportunità unica di creare disegni incredibili collaborando alle illustrazioni di grandi artisti. Attraverso l’esplorazione e l’ingegno, i piccoli esploratori sono in grado di aggiungere il loro tocco personale ad una serie di illustrazioni, creando così la loro arte personale.”

Proviamo a capire meglio di che cosa si tratta attraverso le parole degli autori e dei responsabili del progetto: “Eye Paint Animals segue a ruota PHLIP e Color Vacuum, le prime App create da Curious Hat, presentate all’inizio di quest’anno (2012, ndr). Le App di Curious Hat coinvolgono la creatività e l’esplorazione dei bambini mettendoli in stretto contatto con l’ambiente che li circonda. La serie di App dal nome Eye Paint utilizza la fotocamera dello smartphone/tablet per catturare texture, pattern e colori che vengono poi usati per riempire, in modo interattivo, le aree del disegno. Questo metodo permette di colorare con una gamma organica di sfumature e trame – quali quelle di fiori o erba, sassi o legni, pelle o foglie. Il risultato finale è un’illustrazione unica nel suo genere. Eye Paint è colorato, animato ed estremamente facile da usare – anche per bambini molto piccoli. “Il modo migliore per far conoscere l’arte dell’illustrazione ai bambini è quello di renderli partecipi dell’opera stessa.” - dice Nadia Andreini, Creative Director di Curious Hat“Lo spirito che anima il progetto di Eye Paint è quello di promuovere la creazione dell’illustrazione portando il bambino ad esplorare ed interagire col mondo che lo circonda.” “Gli stimoli visivi a cui i bambini sono sottoposti fin da piccoli hanno un ruolo molto importante nella loro crescita, per questo la serie di Eye Paint desidera esporre i bambini all’arte dell’illustrazione di artisti che mostrino loro stili di rappresentazione diversi.”  “Questo è un ottimo modo per aiutare i bambini (ed anche i grandi) ad imparare come i colori, le texture e le forme presenti nell’ambiente possono essere utilizzati per creare i diversi colori, texture e forme presenti in un disegno. Si tratta di un uso della tecnologia e del design realmente ispirato”, dice Scott Singer, Digital FX Supervisor di Tippet Studio, California.

Un progetto di ampio respiro, insomma, con caratteristiche peculiari, tra cui la collaborazione di importanti artisti e disegnatori di tutto il mondo: “Eye Paint Animals mostra 20 disegni originali di Giorgio Cavazzano, uno dei più noti illustratori italiani. Eye Paint Halloween, mostra le divertenti illustrazioni di un altro artista italiano: Francesco Chiacchio. Eye Paint Halloween è disponibile da Ottobre 2012 sull’App Store, ed è attualmente gratuita. Ulteriori App della serie Eye Paint saranno annunciate a breve, con il lavoro di illustratori provenienti dal Giappone, Cina e Canada, ognuno caratterizzato dalla propria cultura e dal proprio stile.” Uno stile su cui i bambini possono innestare la loro personale visione del mondo, partendo dalla percezione dell’ambiente e ritrovando quel piacere di osservare la cui crisi viene talora attribuita – in questo caso del tutto a torto – proprio alle tecnologie digitali, che per una volta almeno sono invece interpretate non come un modo per racchiudere (citando Sherry Turkle) la vita nello schermo, ma per andare oltre lo schermo e affacciarsi sulla vita con occhi pieni di ritrovata meraviglia.

Disponibilità di Eye Paint:

  • Eye Paint Animals di Curious Hat è disponibile come App universale sull’Apple Store a Euro 0.99. Per scaricare la App occorre cliccare qui.
  • Eye Paint Halloween è disponibile gratuitamente sull’Apple Store: cliccare qui.
  • Per ulteriori informazioni su Curious Hat visita il sito: www.curioushat.com, http://itunes.com/apps/curioushat, oppure manda una mail a: info@curioushat.com.

A proposito di Curious Hat (www.curioushat.com):

  • Curious Hat crea prodotti interattivi e educativi per dispositivi mobili che stimolano il bambino a interagire con il mondo reale. Queste applicazioni non sono giochi ma strumenti di scoperta focalizzati a stimolare il bambino a giocare, creare, inventare, esplorare e imparare giocando senza limitazioni. Nel promuovere l’esplorazione individuale e personale Curious Hat incoraggia l’uso dei dispositivi mobili come strumento per l’interazione fra genitori/adulti e bambini attraverso l’introduzione del fantastico mondo del Professor Vapori.
  • Curious Hat è stata fondata da Luca Prasso ed Erwan Maigret, entrambi genitori e professionisti con anni di esperienza nel mondo dei film d’animazione al computer e dello sviluppo software. Il team di Curious Hat e’ anche composto da un network di artisti internazionali guidati dal Direttore Creativo Nadia Andreini. Insieme collaborano a progetti che combinano un design avvincente con un innovativo uso delle tecnologie disponibili sui dispositivi mobili.
  • I prodotti di Curious Hat sono il risultato di un’intensa ricerca e sviluppo con l’aiuto di esperti nel settore dell’educazione e degli stessi bambini. Le applicazioni sono create e testate da bambini ed adulti fin dalle prime fasi progettuali.

Curious Hat Media Contact:
Liz Tjostolvsen – liz@curioushat.com – Tel: +31 6 2796 3873
©2012 Curious Hat Inc. All rights reserved. Apple, iPhone, iPad and iPod Touch are trademarks of Apple. Other company and product names may be trademarks of their respective owners.

Libri a impatto zero

Si è discusso più volte di come gli eBook possano ridurre significativamente l’impatto ambientale dell’industria del libro, una filiera complessa e tendenzialmente inquinante, che implica tradizionalmente, oltre al taglio degli alberi (che si possono comunque piantare di nuovo), l’uso di prodotti chimici di non facile smaltimento e le emissioni legate al trasporto e alla distribuzione dei volumi. La diffusione degli eBook, che non implicano né la produzione cartaria né il trasporto su gomma dei prodotti librari, rappresenta sicuramente un’ipotesi interessante per chi ha a cuore i problemi ambientali, per quanto questo aspetto sia spesso sottaciuto e tenda a passare in secondo piano rispetto al dibattito sulle implicazioni culturali ed economiche del fenomeno, che evidentemente, per molti editori, contano più di ciò che si può fare per l’ambiente. L’obiezione di alcuni è che, se è vero che gli eBook non richiedono carta e vengono distribuiti in rete, resta il problema del trasporto dei dispositivi di lettura, nonché il fatto che gli eBook Reader, a differenza dei volumi a stampa, implicano un consumo di energia che comporta a sua volta emissioni e conseguente inquinamento, e pone anche problemi di smaltimento. Per discutere in modo serio su questi aspetti occorrebbero dei dati certi: numerose analisi comparative di qualche tempo fa (una sintesi interessante si può trovare qui e qui) dimostrerebbero che gli eBook sono in ogni caso più eco-compatibili dei volumi a stampa, a condizione che si faccia un uso regolare e non sporadico dei dispositivi. Tuttavia, il passo decisivo verso il libro a impatto zero, ovvero verso una (quasi) piena ecosostenibilità degli eBook si avrà quando si riuscirà a ridurre o eliminare del tutto il bisogno di energia degli eReader. Ed è su questo aspetto che chi è più sensibile al problema si sta in qualche modo concentrando: la strada è quella dell’autosufficienza energetica degli eReader grazie alla ricarica basata su cellule solari o fotovoltaiche, una possibilità estremamente concreta, considerando che a differenza dei Tablet o dei Notebook (e in generale di altri dispositivi elettronici) gli eReader si possono utilizzare in piena luce e – non essendo basati su display retroilluminati – implicano in ogni caso un consumo delle batterie ridotto e diluito nel tempo. La ricerca sulla ricarica solare degli eReader sembrava aver imboccato la strada giusta grazie ad alcune sperimentazioni avanzate giapponesi e taiwanesi sui display flessibili a inchiostro elettronico. Ma le soluzioni di questo tipo, forse anche per ragioni di mercato, non sembrano di imminente diffusione. Che cosa si sta muovendo, quindi, sullo scenario dei libri a impatto zero? Le notizie sono incoraggianti: si va dalla diffusione in rete di manualetti e istruzioni per modificare un eReader in modo da collegarlo a cellule solari, fino alla distribuzione di prodotti specifici per ricaricare al sole le batterie dell’eReader, come l’eccellente dispositivo dell’azienda californiana Suntactics o l’ancora più interessante copertina solare per il Kindle, distribuita direttamente da Amazon anche in Italia. Resta il problema della produzione, della distribuzione e dello smaltimento dei dispositivi elettronici. Ma questa è un’altra storia, che richiede una visione più ampia. Nel frattempo, ognuno di noi può fare come sempre qualcosa per salvare il mondo: ad esempio leggere più libri digitali su dispositivi ricaricabili a energia solare; con buona pace del profumo della carta.

Contenuti digitali e lettura veloce

Un umorista direbbe probabilmente che è inutile leggere più velocemente, se non si è in grado di capire ciò che si legge neanche arrancando parola per parola, come talora sembra che facciano certi rappresentanti della classe dirigente o certi imprenditori. Ma per una volta proviamo ad andare oltre i luoghi comuni segnalando un esperimento sulla lettura veloce che appare di un certo interesse, e che merita forse di essere osservato con un po’ di attenzione. Diciamo esperimento, ma in realtà si tratta di un software, venduto con tanto di pacchetto (a un prezzo contenuto), pluripremiato e ampiamente documentato attraverso varie risorse online, in gran parte raccolte su un sito dedicato. Si chiama 7 Speed Reading, e fa parte di un set di strumenti e ausili prodotti da eReflect, nota per degli ottimi dizionari elettronici e per altri pacchetti didattici sullo spelling e il potenziamento della memoria. L’aspetto interessante di questo approccio, al di là della sua reale efficacia, è l’estrema attenzione che i produttori di questo strumento dedicano alle strategie per il potenziamento della velocità di lettura di pagine Web ed eBook, lasciando intendere che i contenuti digitali non solo non rappresentano un ostacolo per chi vuole leggere di più (e in modo più efficiente), ma si configurano anzi come una straordinaria opportunità. Si sottolinea ad esempio la relazione tra la possibilità di “volare” sulla scrittura digitale e la gestione dell’information overload (vi ricorda qualcosa? Un certo Nielsen, ad esempio…). Si enfatizza la necessità di gestire meglio gli input digitali come strategia per l’economia della conoscenza. Si parla esplicitamente di ergonomia cognitiva. Insomma, il prodotto in vendita è ottimisticamente americano, promette miracoli tutti da verificare e viene commercializzato come se fosse un detersivo. Ma si intuisce che dietro quel prodotto c’è un processo che tiene conto di molte implicazioni della cultura digitale, e si ispira a una visione molto avanzata: che può spingere molti a leggere eBook e a migliorare la capacità di gestire i molteplici stimoli quotidiani a cui i social media ci stanno abituando. Sarebbe già un successo…
Per saperne di più si veda anche questo articolo: eReflect Announces Full Support of eBook Revolution.

La Biblioteca è morta, viva la Biblioteca

Il titolo di questo post-it è facile e forse anche un po’ scontato. Ma è pertinente: della sorte delle biblioteche nell’epoca della riproducibilità digitale dei libri si parla da parecchio tempo, ma adesso sembra proprio arrivato il momento di accettare un confronto aperto con un futuro che, per quanto non sia più quello di una volta, si è ormai trasformato in piena attualità. Non si tratta di supposizioni: se ne parla infatti in modo approfondito in un recente articolo di Lisa Carlucci Thomas su quanto emerso a ALA 2011 (la conferenza annuale dei bibliotecari americani) a proposito dell’impatto che le nuove tecnologie stanno producendo sull’organizzazione e sui significati delle biblioteche e sulle “direzioni” che esse potranno (o dovranno) imboccare per sopravvivere, rinnovandosi. E sono temi su cui ormai si sta diffondendo anche della letteratura specialistica, come questo eBook di Bradford Lee Eden (More Innovative Redesign and Reorganization of Library Technical Services, distribuito da Amazon) che viene presentato con queste parole: “this book collects international case studies demonstrating ways in which library technical service departments are meeting the challenges of new formats and new work duties in the wake of less money and a decreasing job force. Topics covered include the impact of computers and technology on workflow enhancement, changing staff roles, and communications challenges”. Complessivamente, il dibattito in corso recupera e ripropone temi già noti e soluzioni già esplorate, dall’attenzione verso le tecniche di indicizzazione e le modalità di ricerca delle risorse digitali, al bisogno di lavorare sulle nuove competenze necessarie ai bibliotecari perché possano muoversi agevolmente in questo scenario metamorfico e fluido di inizio millennio. Tuttavia, almeno nel dibattito in corso in ambito nordamericano, stanno prendendo forma anche alcune tendenze in parte inaspettate, che vale la pena osservare. Sono sostanzialmente tre. La prima riguarda la crescente attenzione delle biblioteche per i servizi informativi legati all’ubiquità e alla mobilità: non si tratta semplicemente di rendere il catalogo consultabile attraverso un Tablet o uno SmartPhone, ma di attivare un vero e proprio servizo di consulenza (anche on-demand) orientato alla fidelizzazione (proprio così) degli utenti; in pratica, le biblioteche stanno cercando di recuperare un rapporto privilegiato con gli ex frequentatori abituali (in netto calo) virtualizzando la relazione tra lettori e bibliotecari. Fa probabilmente parte di questa stessa strategia una seconda tendenza, del tutto insolita nella storia delle biblioteche: offrire free-tutoring (leggi: garantire supporto gratuito su contenuti di libri utilizzabili a scopo didattico nell’ambito del recupero scolastico o anche della preparazione universitaria). Una novità decisamente interessante, che si configura forse anche come una risposta plausibile (e intelligente) alla crisi economica in atto. Infine, si percepiscono segnali sistematici di una tendenza che in sé non è certo una novità ma lo rappresenta certamente nel mondo bibliotecario: le biblioteche cominciano a selezionare e proporre eBook gratuitamente scaricabili. Non in prestito, ma direttamente scaricabili. Tutti questi cambiamenti portano allo sviluppo di qualcosa che non somiglia più a nulla di ciò che conoscevamo. E per capirlo basta guardare Live-brary: free downloads, e-tutoring gratuito anche per la formazione professionale (e anche in spagnolo), vetrine di novità recensite, sprazzi di materiale storico digitalizzato, concorsi a premi sulla “parola del giorno” e, come sottotitolo del logo la frase “Redefining Your World”. Sembra la demo di una start-up sui social media: ma in realtà è il sito della rete delle biblioteche pubbliche di una contea dello stato di New York.

Immersi nella scrittura (per un mese)

Il progetto ha un nome impossibile: NaNoWriMo. Significa “National Novel Writing Month” e a prima vista sembra uno dei tanti concorsi letterari per giovani scrittori, per di più con un taglio patriottico. Ma non è affatto così: si tratta infatti di un esperimento sulla scrittura creativa (avviato peraltro quasi 12 anni fa) che consiste – è il caso di dire letteralmente – nell’immergersi per un mese nella stesura di un racconto di almeno 50 mila parole o 175 pagine. Lo scopo non è vincere un premio, ma (un po’ come in certe maratone amatoriali) raggiungere l’obiettivo, ovvero dimostrare che si è in grado di curare la stesura di un prodotto letterario di una certa dimensione entro un arco di tempo prestabilito, nella fattispecie il mese di novembre. Possono partecipare tutti: non ci sono limiti di età, si può scrivere in qualsiasi lingua e si può anche decidere di formare un gruppo collaborativo di autori (ad esempio una classe di una scuola). L’importante è raggiungere lo scopo: 50 mila parole (e un senso compiuto) entro la mezzanotte del 30 novembre. Con ogni mezzo, inviando file al comitato organizzatore attraverso un validatore quantitativo e partecipando se si vuole a discussioni e scambi di idee in uno dei forum a disposizione. Non sarà valutata la qualità del racconto, ma solo la sua coerenza rispetto ai parametri richiesti per essere inseriti nella lista dei “vincitori” e ottenere l’attestato di partecipazione, premettendo (così si legge nelle FAQs) che “people can cheat and upload something that’s not a novel and still “win.” But since the only real prize of NaNoWriMo is the self-satisfaction that comes with pulling off such a great, creative feat, we don’t really worry too much about people cheating. Those who upload 50,000 words they copied from Wikipedia.org just to see their name on the Winner’s page are pitiful indeed, and likely need more help than a downloadable winner’s certificate can provide them“. In sostanza, il progetto si configura come un esercizio di autodeterminazione funzionale alle istanze del self-publishing, e non è certo un caso se Chris Loblaw, un self-publisher di successo, autore di uno degli eBook più amati e scaricati dai giovanissimi in questo momento, ammette di dovere molto a NaNoWriMo. Come dire: scrivete, scrivete: qualcosa resterà…

La lettura illuminata

La disponibilità di testi digitali rende sempre più attuali alcune prospettive del cosiddetto web semantico. Non mi riferisco soltanto agli esperimenti in corso sul cosiddetto “social reading”, a proposito dei quali vale la pena segnalare almeno il portale internazionale Copia e l’esperienza tutta italiana di Bookliners. Penso piuttosto a nuove modalità di ricerca sul contenuto, basate su elementi più sofisticati dell’asettico confronto sulle occorrenze full-text su cui si basano ancora quasi tutti i motori, e allo stesso tempo non necessariamente legate al superamento dell’approccio tassonomico-descrittivo in nome e per conto di folksonomie sulla cui reale efficacia bisognerebbe avviare una discussione aperta. Ora, sembra però che si stiano esplorando altre modalità di classificazione dei testi digitali, che permetteranno correlazioni più sofisticate: è il caso di un esperimento (già in versione Beta) che si chiama Book Lamp ed è curato da Aaron Stanton.

Logo Beta Book Lamp

Book Lamp è formalmente un portale orientato al “social reading”. Gli utenti registrati possono discutere sui libri che stanno leggendo, segnalare dei desiderata e condividere recensioni. Ma hanno a disposizione qualcosa in più: il sistema è infatti in grado di suggerire correlazioni tra i libri non soltanto in base ai TAGs o verificando chi legge cosa, ma anche evidenziando similitudini stilistiche e analogie narrative. In pratica, se cerco un romanzo di Defoe (ad esempio Moll Flanders), il motore di Book Lamp mi sussurra che se mi piace quel genere di racconto troverò presumibilmente interessanti anche alcuni romanzi di Dickens e di Twain, e forse anche qualcosa di Poe e di Orwell. La ricerca della correlazione stilistica si basa sull’assegnazione a ciascun titolo inserito nel database di un set di valori associati a 5 elementi ritenuti essenziali per descriverne stilisticamente il contenuto del libro: il ritmo, la densità, l’azione, il dialogo e il livello descrittivo. Ogni utente, in un secondo momento, può in ogni caso esprimere un giudizio di pertinenza rispetto ai suggerimenti di lettura che il sistema restituisce, giudizi che saranno utilizzati per rimodulare gradualmente i parametri associati ai libri. Semplice e geniale, anche se necessariamente orientato alla gestione di scaffali digitali di narrativa. Ma nel frattempo si aprono nuovi orizzonti…

I libri di Darwin (biblioteca digitale)

Charles Darwin’s Library
a cura della Biodiversity Heritage Library,

Si tratta di una biblioteca digitale unica nel suo genere: il progetto consiste infatti nella digitalizzazione integrale e nella ricostruzione virtuale del corpus dei libri posseduti, letti e commentati da Charles Darwin. Non soltanto, quindi, una bibliografia specifica sulle tematiche naturalistiche care allo scienziato, ma anche un modo per ripercorrere le letture del padre dell’evoluzionismo e osservare le sue annotazioni sui testi, i suoi appunti, in quanto traccia essenziale per comprenderne le intuizioni. Al momento sono già disponibili in formato digitale 330 volumi su un totale di 1480: si possono sfogliare online in versione facsimile o leggere in trascrizione, oltre che scaricare in varie modalità, selezionando ad esempio soltanto le immagini, o alcune pagine, o le annotazioni. Il progetto è supportato anche dalla JISC.

Tra carta e schermo

Tra i tanti esperimenti in corso sulle “nuove forme” del libro nell’epoca della sua riproducibilità digitale, questo Between Page and Screen è piuttosto insolito, ma decisamente intrigante:

Si tratta di un ibrido effettivo tra carta e schermo, o meglio ancora, di un caso di ri-mediazione premeditata sul conflitto in atto tra libro digitale e volume cartaceo. In pratica, ci si mette davanti al computer e si sfoglia quello che sembra un libro tradizionale: ma quando sulle pagine appaiono dei simboli codificati che una webcam è in grado di riconoscere, ecco che sullo schermo prendono forma immagini e parole bi o tridimensionali, proiezioni poetiche, disegni evocativi. Un esperimento inquietante ma coinvolgente, che più che una reinvenzione a metà strada tra i libri pop-up e gli enhanced book sembra un omaggio alla pop art, con richiami evidenti alla poesia visiva futurista e al dadaismo. Si può anche provare a costruire da soli un proprio librido (perché non chiamarlo così…), stampando (su carta) un codice simbolico da agitare di fronte alla webcam. Per vedere (se la configurazione della webcam risulta corretta) che cosa succede.

Fonte: Between Page and Screen

Leggere tra le righe

Google Labs, come suggerisce il nome, è un’area sperimentale in cui si raccolgono progetti avanzati di software, applicazioni, gadget tecnologici o strumenti innovativi per la rete. I progetti sono spesso legati a esperimenti mirati e ricerche specifiche, e non è detto che sopravvivano o che siano sostenuti nel tempo (esemplare in tal senso il caso di Lively, un ambiente di RV interessantissimo e innovativo che tuttavia è stato abbandonato dopo pochi mesi di testing), anche se a volte diventano prodotti commerciali e cominciano a essere distribuiti diversamente. Ma finché sono in laboratorio si possono provare liberamente e di solito nel pieno rispetto della filosofia Open Source, che Google interpreta in modo indiretto ma sostanzialmente corretto. Bisogna approfittare dell’occasione insomma. Così, esplorando il laboratorio, ho trovato questo Books Ngram Viewer, che può sembrare un’idea semplice e forse anche un po’ scontata ma che ha anche delle notevoli potenzialità, soprattutto per chi si occupa di educazione. Di che cosa si tratta? La presentazione è molto semplice e diretta: “when you enter phrases into the Google Books Ngram Viewer, it displays a graph showing how those phrases have occurred in a corpus of books (e.g., ‘British English’, ‘English Fiction’, ‘French’) over the selected years”. In pratica, è un motore di ricerca full text che permette di verificare l’andamento dell’occorrenza di parole o frasi in insiemi consistenti di libri pubblicati negli ultimi due secoli (e digitalizzati da Google) in ambito anglofono ma anche in francese, tedesco, spagnolo, russo, ebraico e cinese (in italiano no, evidentemente il corpus di testi digitali disponibili non è sufficiente). Lo strumento si presenta semplicemente come un form di input per la o le parole chiave che si vogliono cercare e i relativi parametri: cliccando su “search lots of books”si ottiene il grafico che evidenzia l’andamento delle occorrenze secondo i parametri impostati. Più in basso, appare inoltre un set di link che rimanda direttamente ai libri digitali raccolti in Google Books in cui le occorrenze sono state individuate. Volendo, si possono anche scaricare i dataset completi, per ulteriori verifiche.  In effetti, sia pure con tutti i se e tutti i ma del caso (per la verità correttamente ricordati nella presentazione e negli help, dove si evidenzia come evitare le ambiguità linguistiche, come impostare correttamente le keywords e molto altro), sembra un gran bel “giocattolo”, che può permettere di evidenziare tendenze o valutare ipotesi: osservare sotto forma di grafico la presenza percentuale di una frase o di un nome in un insieme statisticamente consistente di libri pubblicati in un arco esteso di tempo non costituirà di per sé la prova di un fenomeno culturale, o della fortuna di un autore, o di una consuetudine linguistica, ma può aiutare a ragionare. Ho provato ad esempio a verificare quanto ricorrono nelle pubblicazioni in lingua inglese i nomi di alcuni dei nostri autori più importanti (esempio A, esempio B, esempio C) e i risultati non sono banali, possono innescare una discussione. Ho provato anche a divertirmi impostando ricerche su gruppi di parole inglesi comuni (esempio), sull’occorrenza di nomi geografici, sui politici italiani più citati e sulla terminologia essenziale in ambito educativo (esempio 1, esempio 2). E ne ho ricavato sempre spunti interessanti. Proverò ancora.

Riferimento completo:
Jean-Baptiste Michel*, Yuan Kui Shen, Aviva Presser Aiden, Adrian Veres, Matthew K. Gray, William Brockman, The Google Books Team, Joseph P. Pickett, Dale Hoiberg, Dan Clancy, Peter Norvig, Jon Orwant, Steven Pinker, Martin A. Nowak, and Erez Lieberman Aiden*. Quantitative Analysis of Culture Using Millions of Digitized Books. Science (Published online ahead of print: 12/16/2010).

Storyfix (blog)

storyfix.com
a cura di Larry Brooks

Un blog sulle tecniche e le caratteristiche della scrittura digitale (e sullo storytelling in generale). Raccoglie, segnala e pubblica (dal 2009) numerosi contributi e libri digitali centrati sull’ipotesi che la qualità e l’efficacia della scrittura possano essere migliorate lavorando su 6 competenze “core”, in parte già note a chi si occupa di critica del testo, in parte decisamente meno scontate. Può rappresentare una risorsa utile sia per scrittori, scriventi e web writers che per chi insegna scrittura.

Scoperte condivise

Scoperte condivise è una knowledge base in progress, impostata come un percorso di ricerca: si segnaleranno risorse perse nella rete, selezionandole in base alla qualità complessiva e all’originalità, e privilegiando contenitori, portali, siti e blog che rispondono all’istanza della “consistenza” e vanno oltre la pura e semplice apparenza. La ricerca si concentrerà sulla scrittura e l’editoria digitale, sull’innovazione nella gestione e nella distribuzione della conoscenza, sulla creatività, sulla comunicazione integrata e sul design dei contenuti digitali.

Chi volesse collaborare o segnalare siti e risorse interessanti può scrivere direttamente a Mario Rotta o alla Redazione.

L’eBook è mio e lo gestisco io

La parola “personalizzazione” ha spesso un suono equivoco. Evoca un concetto mitizzato, talora abusato, quasi sempre poco chiaro, soprattutto quando ci si riferisce all’apprendimento e alla conoscenza. A rigor di logica (e se si ripercorre la ricerca sull’argomento) personalizzare non significa affatto aggiungere qualcosa di proprio ad un insieme predefinito, né seguire un percorso alternativo per raggiungere un obiettivo dato: in questi casi sarebbe più corretto parlare di “individualizzazione”, mentre personalizzare significa diversificare, identificare e perseguire altri obiettivi rispetto a quelli suggeriti dal contesto con cui si interagisce, o più semplicemente cambiare, esplorare, integrare. Parlando di eBook, la questione appare ancora più complessa: certe opzioni tipiche del formato ePub ad esempio (come la possibilità di scegliere i font preferiti e/o di ingrandirne il corpo) vengono spesso presentate come opportunità di personalizzazione, ma di fatto non lo sono, poiché non agiscono sul contenuto, ma solo sulla sua visualizzazione. Allo stesso tempo, non sempre vengono evidenziate in quanto tali certe possibilità più coerenti rispetto a una definizione corretta, come l’annotabilità, la riusabilità e/o la flessibilità dei contenuti. In realtà è proprio su questi aspetti che si concentrano gli esperimenti di personalizzazione più interessanti in corso in questo momento. Ce ne sono di almeno tre tipologie. I primi consistono nel dare ai lettori la possibilità di decidere autonomamente in che modo può evolversi il testo (un percorso, una storia…): si tratta di un’applicazione dei principi dell’iperstestualità, che nella produzione di eBook di ultima generazione vengono reinterpretati andando oltre la destrutturazione non lineare del testo, per arrivare a ipotesi di vera e propria personalizzazione del contenuto, come propone ad esempio l’editore francese Mon Roman, che parla espressamente di romanzi personalizzati in base a istanze espresse dagli utenti. La seconda ipotesi va ancora oltre e si concentra sulla possibilità, da parte degli utenti, di assemblare autonomamente i propri libri digitali selezionando parti di contenuto da un repository condiviso: un’opzione che appare particolarmente interessante in ambito educativo, come suggerisce il progetto “Custom Select” dell’editore Wiley. Infine, si segnalano le ipotesi basate sul superamento del concetto stesso di libro = testo, per puntare sulla distribuzione di frammenti o segmenti di contenuti digitali all’interno di un ambiente sociale, dove ciascun lettore/utente può diventare co-autore e/o facilitatore tra pari: come accade nel progetto “Social Learning” di Garamond. In tutti gli esempi citati emergono alcune istanze fondamentali per il dibattito avanzato sugli eBook. Prima di tutto appare chiaro che lavorare sulle opportunità di personalizzazione implica una concezione del contenuto fondata sul concetto di “openness”: non solo il contenuto deve essere “aperto”, ma anche fluido, riusabile, non limitato da DRM vincolanti. Le stesse politiche di distribuzione dei contenuti dovrebbero essere ripensate e rese più flessibili. Inoltre, bisogna ragionare sulle diverse esigenze di personalizzazione determinate dal profilo degli utenti, passando da una visione centralistico/trasmissiva del lavoro autoriale/editoriale alla valorizzazione di forme supportate e collaborative di co-mediazione sui contenuti, come spiega in modo chiaro e semplice Vishal Dani in un bel post su Digital Content Publishing. Ulteriori sviluppi potranno prendere forma tenendo conto dell’impatto degli eBook sul modo di scrivere e sul modo di leggere, e sulla relazione tra i due epifenomeni (se ne parla ad esempio in un articolo di Steven Johnson sul Wall Street Journal), e soprattutto dalla corretta valorizzazione di dimensioni specifiche ed esclusive degli eBook, come l’annotabilità, oggetto tra gli altri di un bell’articolo di Mac Slocum su O’Reilly Radar. Insomma, si aprono scenari di reale innovazione. Sempre che si riesca ad andare oltre i limiti di un dibattito che spesso tende a ristagnare su aspetti più superficiali e talora fuorvianti, legati alla sola fenomenologia delle tecnologie in quanto tali o alla volontà di controllare il passaggio epocale in atto in nome di posizioni nostalgiche o di interessi consolidati.

Ma quando diventano disponibili i contenuti digitali? E dove? Un esempio dal Canada…

Quando si parla di contenuti digitali si dimentica spesso che il primo passo verso la tanto auspicata “società della conoscenza” consiste semplicemente (si fa per dire) nel rendere disponibili e accessibili i contenuti in quanto tali, soprattutto a scopo di studio o di ricerca. Questo può significare molte cose, ma al di là delle varianti nelle interpretazioni e nelle visioni strategiche appare chiaro che per costruire i presupposti di una società e di un’economia realmente knowledge-based bisogna partire dalla digitalizzazione sistematica dell’eredità storico-culturale. Rendere cioè disponibile e accessibile, facilmente, liberamente e a tutti, ciò che altrimenti sarebbe difficile da reperire e consultare. Su queste basi, del resto, ha preso forma il dibattito sulle biblioteche digitali, e su queste basi si è sviluppato negli anni. Ma in concreto che cosa si è fatto? In Italia pochino, anche se potremmo e dovremmo essere all’avanguardia proprio in campi come questo. Altrove qualcosa in più, ma con dei limiti legati – ormai appare sempre più chiaro – alla cecità delle politiche degli editori (e talora dei governi), ovvero alle restrizioni poste da chi ritiene di dover difendere il copyright (si legga: rendite di posizione sulla gestione della vendita di libri equiparati a merci) anche su opere scritte e pubblicate decenni fa da autori che hanno compiuto il ciclo della loro vita e le cui aspettative consistevano probabilmente nella massima diffusione possibile delle loro idee e della loro scrittura. Una diffusione capillare e universale che le tecnologie digitali rendono teoricamente e praticamente possibile, se non fosse per l’approccio sostanzialmente protezionista di editori e legislatori, che si professano fautori della cultura mentre di fatto ne limitano la disseminazione. Ma ora forse qualcosa sta cambiando. La rete introduce ad esempio anche in questo campo elementi di globalizzazione grazie ai quali si possono portare avanti operazioni culturali che in scenari più tradizionali sarebbero osteggiate o vietate ma che sfruttando la diversità delle normative sui diritti d’autore tra paese e paese diventano possibili. Così in Canada, dove le leggi sul copyright sono meno restrittive che altrove, l’Università del Quebec (insieme ad altri enti locali – già, proprio così) ha digitalizzato integralmente tutte le opere di Albert Camus, autore che in Francia è ancora “protetto”, ovvero proprietà degli editori, e le ha messe liberamente e gratuitamente a disposizione di tutti gli studiosi, i lettori e gli appassionati, sia in facsimile digitale che sotto forma di testi trascritti e riutilizzabili (in RTF e altri formati editabili). Avvertendo, in un box che appare quasi commovente, che ciò che nel Quebec è considerato ormai di pubblico dominio in altri paesi potrebbe violare delle leggi, anche se stiamo parlando di un autore morto nel 1960. Che dire? Bravi: senza inutili orpelli e con un investimento presumibilmente limitato, regalano a tutti un pezzo importante della storia e della cultura del XX secolo. Come del resto hanno già fatto negli Stati Uniti poco tempo fa, aprendo al pubblico della rete gli archivi (digitalizzati) del presidente Kennedy. Questa è la strada giusta: digitalizzare e rendere pubblico, cioè di tutti, ciò che è nato per essere di tutti ed è giusto che sia di tutti. Bisognerebbe spiegarlo a certi nostri ministri, bibliotecari o editori, evidentemente ancora convinti che l’accesso alla cultura sia di pochi e per pochi. Per inciso, a guardarli bene, scelti non si capisce in base a quale criterio…

Abbonarsi all’autore? Si può fare…

Qualche tempo fa (più esattamente qui) scrivevo che si sta “radicalmente modificando la sequenza tradizionale che vede l’autore come produttore e possessore originario di un contenuto che un mediatore indirizza verso il lettore: la mediazione tra autore e lettore tenderebbe piuttosto a scomparire o a passare in secondo piano, così come la dialettica di tipo “push” tra chi produce contenuti e informazioni e chi ne usufruisce. Prevarrebbero al contrario modalità  di distribuzione di tipo “pull” (è il potenziale destinatario che aggrega liberamente contenuti e informazioni diventando in qualche modo co-autore nel momento stesso in cui opera la sua selezione) e soprattutto le dinamiche di elaborazione di tipo sociale, collaborativo o peer-to-peer”. Ora, trovo in rete un esperimento in cui, di fatto, il rapporto tra autore e lettore non solo si modifica, ma, proprio in virtù della sua evoluzione, diventa un modello di politica editoriale alternativo a quello tradizionale. L’esperimento consiste nel passaggio esplicito dal concetto di acquisto del libro al concetto di abbonamento all’autore. Lo propone ad esempio Quintadicopertina, che spiega anche che “l’acquisto dell’abbonamento [ad un autore, ndr] ti dà il privilegio di ricevere, dal dicembre 2010 al novembre 2011, almeno quattro ebook di materiali scelti nel corso dell’anno [dall’autore, ndr]: raccolte di poesie, prosa poetica, inediti, pezzi rari, sperimentazioni e qualsiasi altra cosa la scrittrice decida di offrirti. È la possibilità di accedere a materiali di scrittura che altrimenti potresti non leggere mai, creando un canale inedito e diretto tra scrittore e lettore”. L’idea circola da diverso tempo. L’ho ritrovata tra gli altri in Brown, Dunford e in un’ipotesi per una ricerca dell’università di Cambridge, oltre che in Governor, solo per fare qualche esempio. La ritrovo anche e soprattutto in un’ipotesi di lavoro di Garamond: “una sperimentazione di uso dei libri di testo in formato E-Book, segmentati in brevi unità e integrati nella piattaforma E-learning per rendere possibile le condivisione di appunti, domande, risposte e approfondimenti fra tutti gli alunni e i docenti che hanno in adozione quello stesso testo e gli autori e redattori del libro”. Qualcosa, insomma, sta cambiando, e sembra interessante. Varrebbe la pena parlarne fuori dagli schemi.